domenica 23 dicembre 2018

Dracula. L'esilio in Moldavia

Dracula 

L'esilio in Moldavia


Federico III


Ladislao Jagellone


Luigi d'Angiò



Quest'altro paese romeno aveva conosciuto, a partire dal 1432, gli stessi scompigli e le stesse guerre civili della Valacchia. Il suo nome deriva dal fiume Moldova, che scorre nel nord del paese, dove si trovava la sua prima capitale. La Moldavia ne comprendeva solo due: il paese alto (Tara de sus), a nord, e il paese basso (Tara de jos), a sud. In origine questi due principati erano anche chiamati Valacchia, il paese dei Romeni. Ma poi, per differenziarli dall'altro Stato romeno, si utilizzarono le forme Rossovalacchia (Valacchia vicina alla Russia) e Maurovalacchia (Valacchia nera, settentrionale), diventata Piccola-Valacchia. Il nome Moldavia, che a metà del XIV secolo designava il piccolo principato del nord, finì per imporsi alla fine dello stesso secolo, quando avvenne l'unione del paese alto con quello basso. 
La Moldavia ritrovò la propria indipendenza nel 1359, grazie alla rivolta del principe Bogdan, voivoda romeno originario del vicino Maramures, che occupò il trono e diede il suo nome alla dinastia regnante. L'indipendenza non durò a lungo poiché nel 1370 Luigi d'Angiò, re d'Ungheria, fu eletto anche re di Polonia, sua confinante a nord. L'unione della Polonia con la Lituania, vicina orientale della Moldavia (1386), spinse il principe Pietro I a giurare fedeltà al re di Polonia-Lituania, Ladislao Jagellone (1387). Il paese alto finì con l'unirsi al paese basso verso il 1390-1391 e in tal modo raggiunse il litorale del Mar Nero. La Moldavia rimase per molti secoli vassalla della Polonia. 
Il lungo regno di Alessandro il Buono (1400-1432), contemporaneo e pupillo di Mircea il Vecchio di Valacchia, permise al paese di svolgere un ruolo importante in Europa orientale. La via commerciale che collegava la Cina e la Persia alla Polonia attraverso il Mar Nero, percorreva la Moldavia da Sud a Nord e le apportava una grande prosperità. Alcuni scambi importanti legavano la Moldavia alla Transilvania, grazie soprattutto alle città di Bistrita a Nord e di Brasov a sud. Con Cetatea Alba, alla foce del fiume Nistru, sul Mar Nero, e Chilia, occupata verso il 1428, la Moldavia possedeva due grandi emporia per il commercio internazionale e si affermava come potenza pontica. Il paese adesso aveva raggiunto la sua massima estensione dai Carpazi orientali al Nistru e dal Mar Nero ai confini della Galizia. 
Nel 1420 la comparsa degli Ottomani colse i moldavi di sorpresa. Per un quarto di secolo (1432-1457) i figli e i nipoti del principe si disputarono il trono con una violenza spaventosa. Nel 1433 Elia, figlio legittimo di Alessandro, fece annegare la madre del fratellastro con il quale condivideva il trono, Stefano, che non era riuscito a catturare. La spirale di violenza continuò fino al 1448, quando Roman, figlio di Ilia, decapitò Stefano per vendicare il padre. Un anno più tardi Roman morì a sua volta avvelenato. 
Nella primavera del 1448 Giovanni Hunyadi decise di porre fine all'instabilità della Moldavia insediando Pietro II, che si era rifugiato presso di lui per paura di essere assassinato dal correggente al trono. Quest'azione rientrava nel progetto, accarezzato da Hunyadi, di grantirsi la fedeltà dei due paesi romeni transcarpatici in vista della spedizione che stava preparando contro i Turchi. 
Salito sul trono in marzo, Pietro II si sbarazzò presto del rivale, che morì avvelenato in luglio. Pietro II morì a sua volta il 10 ottobre 1448 e questo spiega come mai non avesse partecipato alla campagna di Kosovopolje. Il suo poso venne occupato da un figlio di Ilia, Alessandro (Alexandrel), di soli dieci anni d'età, per parte di madre egli era cugino del re di Polonia Casimiro IV. E' presso questo giovanissimo principe che Vlad Dracula, si recò nel novembre-dicembre del 1448, dopo essere stato scacciato dalla Valacchia. Foese la seconda moglie di Vlad Dracul, zia di Alessandro si trovava già lì con la figlia Alessandra. Vlad poté trovare asilo in Moldavia per tre anni, nonostante Alessandro venisse scalzato dal trono nell'ottobre del 1449. Il nuovo principe Bogdan II (1449-1451) era figlio del jupan Bogdan, fratello di Alessandro il Buono. Il nuovo principe Bogdan II godeva dell'appoggio di Giovanni Hunyadi con il quale l'11 febbraio 1450 concluse il trattato di fedeltà e di alleanza. Bogdan si impegnava a comportarsi con il governatore dell'Ungheria <<come un figlio con l'amato padre>>; il suo paese sarebbe stato <<un tutt'uno con il paese di Sua Signoria>>; proometteva inoltre al suo signore consigli, assistenza militare, diritto d'asilo, eccetera. 
I termini di questo trattato costituivano una novità nelle relazioni diplomatiche tra la Moldavia e l'Ungheria, e portavano l'impronta dell'energica personalità di Giovanni Hunyadi. Significarono una rottura con la politica tradizionale dedi principi moldavi, i quali avevano scelto il vassallaggio polacco proprio per mettersi al riparo dalla troppo pesante tutela ungherese e dal proselitismo cattolico che essa incoraggiava. 
Il re di Polonia, non poteva accettare questa situazione. Un esercito polacco attaccò la Moldavia a due riprese, nel marzo e nel settembre del 1450, ma subì due gravi disfatte. Nel 1457, Vlad. aiuterà Stefano, fornendogli un esercito e l'appoggio diplomatico per la riconquista del trono moldavo. L'esperienza militare che forse Dracula acquisì in quest'occasione gli sarebbe servita più tardi, essendo la prima volta che combatteva contro un esercito occidentale, formato essenzialmente da corpi di cavalleria pesante e protetto da carri da combattimento che imitavano quelli degli hussiti. Il 15 ottobre 1451, durante i festeggiamenti per il matrimonio di uono dei suoi uomini. Bogdan II venne tratto dal letto in piena notte e decapitato da una truppa comandata da Pietro Aron, pretendente a un trono e appoggiato dai Polacchi. Dopo questo delitto la vedova di Bogdan II si rifugiò con i figli in Transilvania mettendosi sotto la protezione di Giovanni Hunyadi. Vlad la scortò, ma non ebbe la forza di presentarsi davanti all'assassino del padre. Si stabilì probabilmente a Sighisoara o a Brasov. 

Giovanni Hunyadi sembrava ben tollerare il fatto che Dracula si fosse rifugiato in Transilvania. Il nuovo sultano, che entrerà nella storia con il nome di Maometto il Conquistatore, figlio e successore di Murad II, morto il 9 febbraio 1451, stava preparando l'assedio di Costantinopoli e necessitava di concludere la pace con Venezia e con l'Ungheria. E il 20 novembre 1451, infatti, Maometto II firmò una tregua di tre anni con l'Ungheria. 

E Vladislav; principe dei Valacchi, deve pagare e resituire alla Mia Signoria ciò di cui è debitore, il tributo o altri servigi. Egli deve al regnoo d'Ungheria, o al suo governante, attenzione, obbedienza e obblighi.E se soddisfa  le due parti, che regni in pace, e se non pagasse quello che devea me o a sua Signoria il governatore e anche ai signori d'Ungheria che ogni parte possa attaccarlo e obbligarlo a rispettare la pace. E che Vladislav, che adesso è principe dei Valacchi, egni fino alla fine dell'armistizio. E se Vladislav morisse durante il periodo di pace, nessuna delle parti avrà la libertà di nominare un principe in Valacchia diverso da quello che avrà scelto. E colui che sarà principe resterà in questa situazione fino al termine sopra indicato.  

Nella lettera del 6 febbraio 1452 nella quale Giovvanni Hunyadi annunciare alle autorità di Brasov che si sarebbe impegnato a una belligeranza nei confronti di Vladislav II. 

Non ci permettiamo di mandare un esercito di questo campo d'Ungheria contro il voivoda Vladislav, e se possibile che non intraprenderemo niente contro di lui. 

Non ci permettiamo di mandare un esercito di questo regno d'Ungheria contro il voivoda Vladislav, e se possibile che non intraprenderemo niente contro di lui. Perché adesso, l'illustre principe Vlad, figlio del fu voivoda Dracul, che adesso si trova presso di voi, si propone verosimilmente di attaccare il voivoda Vladislav a nostra insaputa e contro la nostra volontà. Se il suddetto Vlad desidera passare attraverso questa regione contro il sunnominato Vladislav allo scopo di distruggere lui e il paese della Valacchia, allora con la presente noi vi ingiungiamo  con la forza di non offrire a Vlad né alloggio né riparo, ma piuttosto di catturarlo e scacciarlo. E poiché il suddetto Vlad è venuto  dalla Moldavia sotto la nostra protezione, faremo in modo che sia condotto sano e salvo per la medesima strada dai nostri uomini e sotto la nostra protezione. 

La decisione di rimandare Dracula in Moldavia era legata al cambiamento di principe in questo paese, avvenuto in febbraio. Alessanndro (Alexandrel) aveva goduto ancora una volta dell'appoggio del re di Polonia, le cui truppe avevano scacciato facilmente Pietro Aron. In breve tempo il giovane principe normalizzò i rapporti con la città di Brasov, alla quale rinnovò i privilegi commerciali concessi dal nonno Alessandro il Buono (il 14 agosto 1452) e avviò altri negoziati in tal senso a Hunyadi. Il 16 febbraio 1453 Alessandro concludeva con quest'ultimo un trattato di <<pace eterna>>, impegnandosi anche a sposare una nipote del suo protettore. 
Vlad lasciò Brasov e la sua regione e si diresse verso occidente per uscire dal territorio sassone. Aveva alle costole non solo gli uomini di Hunyadi ma anche i Sassoni di Sibiu, che gli avevano proibito di stabilirsi nel loro Stuhl. A Geoagiu, vicino a Broos (Oràstie), due uomini di Hunyadi gli tesero un agguato che avrebbe potuto essergli fatale. Vlad ricorderà ai cittadini di Sibiu quest'incidente che quasi gli costò la vita, poiché fu sul punto di essere catturato e giustiziato <per l'amore del signore Vladislav, voivoda>>. 
Vlad si rivolse direttamente a Hunyadi, il quale gli propose di prenderlo al proprio servizio in condizioni di subalterno, cosa che egli rifiutò. Hunyadi lo ricacciò in Moldavia manu militari. Il primo contatto fra i due finì dunque malissimo. Vlad era troppo orgoglioso per accettare qualcosa che esulasse dal trono paterno; dal canto suo Hunyadi teneva a rispettare la pace conclusa con Maometto II e non poteva permettere che Vlad soggiornasse sul territorio sassone della Transilvania, da dove avrebbe immancabilmente minacciato Vladislav II. 
Vlad si ritrovò ancora una volta esiliato in Moldavia. Il paese era ancor governato dal giovane principe Alessandro sotto la tutela dei boiardi, che non vedevano di buon occhio le sue aperture nei confronti di Hunyadi e dell'Ungheria. Alessandro si rassegnò a prestare giuramento  d'obbedienza al re di Polonia. Dal 29 maggio 1453, infatti, Maomentto II occupava Costantinopoli e dall'agosto dello stesso anno esigeva un tributo dalla Moldavia. Nel maggio del 1454 il rappresentante polacco presso la dieta di Ratisbona poteva annunciare pubblicamente che la Valachia e la Moldavia pagavano un tributo annuale ai Turchi e che la popolazione era stata obbligata ad assolverlo dopo un censimento di tutti i capifamiglia. In tal modo non esistevano più bastioni tra la Polonia e i Turchi, cosa che era tanto più pericolosa per il regno in quanto nello stesso momento si stava impegnando in una lotta contro l'ordi e Teutonico. 
La posizione di Alessandro era sicuramente minacciata dall'evolversi dei problemi interni dell'Ungheria, dove Giovanni Hunyadi aveva lasciato il titolo di governatore del regno che deteneva dal 1446. Dopo la disfatta di Kosovo era potuto uscire dalle prigioni del despota della Serbia solo a prezzo di un'alleanza con i nemici della nobiltà ungherese: con Ulrico de Cilli e suo suocero Giorgio Brankovic, con Ladislao Garài e con Nicola Ujlàki. Costoro lo forzarono a negoziare con Federico III la liberazione del re minorenne Ladislao il Postumo, che l'imperatore s'intestardiva a tenere presso di sé in Austria com e pupillo. Hunyadi ottenne da Federico la promessa di restituire la libertà a Ladislao non appena avesse raggiunto la maggiore età, fissata a tredici anni. Nel gennaio del 1453, Ladislao il Postumo divenne arciduca d'Austria e il mese seguente di fece incoronare re d'Ungheria. Giovanni Hunyadi rinunciò allora al suo incarico di governatore del regno e Ladislao lo nominò conte ereditario di Bistrita, capitano del paese e gran tesoriere del regno. Qualche mese più tardi il re creò un triumvirato che avrebbe dovuto gestire i suoi possedimenti: Hunyadi ottenne la responsabilità degli affari d'Ungheria, Ulrico de Cilli quelli d' Austria e Giorgio Podebrad quelli di Boemia. 
Giovanni Hunyadi si trovò ad acere a che fare con un valacco sempre più irrequieto, Vladislav II, che intendeva proteggere i suoi sudditi dalle svalutazioni monetarie ungheresi. Nel settembre - ottobre 1452 Vladislav II inaugurò una nuova politica monetaria e coniò delle monete d'argento più pesanti e più ricche di metallo prezioso delle corrispondenti monete ungheresi, Intendeva sottolineare l'indipendenza nei confronti del vicino settentrionale e permetteva alle proprie monete di circolare sul mercato ottomano. 
Giovanni Hunyadi proibì agli abitanti di Brasov di accettare la moneta valacca e gli aspres turchi, e il re Ladislao tolse a Vladislav II i feudi transilvani di Amlas e di Fagaras. Nell'agosto del 1453, scoppiò un primo conflitto, poi, nel settembre del 1455, Giovanni Hunyadi invase la Valacchia e obbligò Vladislav II ad accettare la nuova moneta inglese, molto svalutata. Le azioni ostili di Hinyadi contro il principe valacco non contravvenivano alla tregua del 1451, che era scaduta. Tuttavia Hunyadi non osò intervenire in Moldavia , dove il principe Pietro Aron, di nuovo sul trono, si era affrettato a prestare anch'egli giuramento di fedeltà al re di Polonia, negoziando nel contempo con Maometto II il pagamento di un tributo che quest'ultimo fissò a 2000 ducati d'oro (5 ottobre 1455).

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venerdì 14 dicembre 2018

Dracula. Il primo regno di Dracula (1448)

Dracula 

Il primo regno di Dracula (1448)


Giovanni Hunyadi 


All'inizio del mese di settembre l'esercito di Giovanni Hunyadi aveva passato il Danubio a Cuvin (Keve), di fronte a Smederev, e si era diretto a sud, allo scopo di congiungersi con le truppe albanesi di Smederev, e si era diretto a sud, allo scopo di congiungersi con le truppe albanesi di Scandenberg (Giorgio Castriota). Prima di quesata data, una truppa formata da 1500 tra cavalieri e soldati, guidata da Michele Szilagyi, cognato di Hunyadi, aveva effettuato una diversione e attaccato la fortezza turca di Vidin. I Turchi, raggrupparono le forze di tre bey di confine e saccheggiarono la Valacchia. Szilagyi lo accerchiò e, con l'aiuto del principe della Valacchia Vladislav II, catturò 3000 uomini, tra cui il bey di Vidin. Dopo questo scontro, l'esercito crociato continuò la spedizione. A Kosovopolje, la strada del ritorno venne tagliata dai Turchi e dalle truppe del despota serbo Giorgio Brankovic, che si era opposto all'impresa cristiana. Dopo la dsfatta e la fuga di Hunyadi, la ritirata di Vladislav II e dei suoi 4000 cavalieri fu lunga e difficile. Durante la sua assenza la Valacchia restava militarmente sguarnita ed esposta a un colpo di mano dei Turchi. Fu il momento scelto da Dracula per varcare il Danubio. 
Vlad era arrivato in Valacchia più velocemente di quanto credessero i contemporanei. Il 31 ottobre occupava già da una settimana o due il trono di Targoviste.
L'invito di Nicola d'Ocna Sibiului a recarsi in Transilvania era uno stratagemma per catturare Vlad. I personaggi in questione era un fedele di giovanni Hunyadi, e al sua offerta non poteva che nascondere un trabocchetto. Vlad <<mangia la foglia>> e dichiara di voler aspettare altri particolari sulla morte di Giovanni Hunyadi, che alcuni ritengono già morto. I suoi rapporti con gli Ottomani risultano chiari: lo prova il fatto che è dal fratello del naib di Nicopoli che riceve le informazioni sulla battaglia di Kosovopolje. 
La morte di suo padre aveva liberato dal giuramento di fedeltà i grandi signori del paese, riuniti da un anno intorno a Vladislav II. 
Il primo regno di Dracula non durò a lungo: il 7 dicembre a Costantinopoli corse voce che fosse stato sconfitto da Giovanni Hunyadi, il quale lo avrebbe condannato a morte. Questa doppia informazione è falsa perché Hunyadi ritrovò la lbertà solo a Natale. Fu dunque Vladislav II, infine rientrato da Kosovopolje, a scacciare Dracula dellaa Valacchia verso la fine di novembre. Ed egli, costretto nuovamente all'esilio, trovò rifugio in Moldavia. 

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Dracula. Ostaggio nel paese ottomano (1444-1448)

Dracula 

Ostaggio nel paese ottomano (1444-1448)



A partire dal 1444, quando aveva quattordici o quindici anni, Vlad Dracula dovette fare i conti, suo malgrado, con un terzo universo; il mondo ottomano dell'Asia minore e poi di Adrianopoli, in Europa. La società nella quale si trovò immerso non assomigliava in nulla e per nulla a quella in cui era cresciuto. Rimase colpito dalla venerazione di cui godeva il sultano da parte dei sudditi, che si consideravano come suoi schiavi. I più alti dignitari di corte potevano cadere in disgrazia oppure essere esiliati; giustiziati, privati dei beni, senza che nessuno osasse mai opporsi. La vita e il cerimoniale di corte concretizzano questa forma di venerazione per il sultano, che veniva circondato da innumerevoli servitori e soldati, tra cui i famosi giannizzeri, riorganizzati da Murad II. 
Tutto ciò impressionò Vlad, che era abituato alla preminenza dei gran signori (jupan) e dei loro clan negli affari dello Stato valacco, al loro spirito fondista, al loro orgoglio e alla loro brutalità. L'instabilità del trono valacco dal 1420 in poi e l'avvicendamento sul trono dei principi sostenuti dalle varie fazioni nobiliari aumentarono il contrasto con la meccanica ben oliata dell'Impero ottomano. Se è vero che in Valacchia gli uomini nuovi potevano raggiungere posti di potere grazie a loro meriti sul campo di battaglia, il peso dell'aristocrazia restava altresì predominante. Questa supremazia era dovuta soprattutto alla forza economica e militare dei clan, in numeri di cinque o sei in tutta la Valacchia, e risaliva ai secoli XIII e XIV. Si trattava, dei discendetni degli knezes e dei voivoda precedenti alla creazione dello Stato. Questi clan erano riusciti a conservare le loro proprietà e ad ampliarle attraverso alleanze matrimoniali, oppure con la forza o anche in virtù di donazioni da parte del principe; tutto ciò a detrimento dei liberi proprietari allodi, il cui peso sulla società valacca andava vieppiù diminuendo. Peraltro, se un boiardo era accusato di fellonia verso il suo principe, ma solo per passare nelle mani di altri membri dello stesso clan. Un nuovo principe poteva sempre intervenire sulle confische avvenute nei regni precedenti al suo, e il costume, stabiliva, persino il divieto ai principi di vendere i villaggi dei boiardi. 
Alla corte del sultano, dove visse almeno un anno, poté osservare la straordinaria varietà di nazionalità che formavano la sua cerchia: nobli provenienti dalle grandi famiglie turche dell'Anatolia, Geci rinnegati, Serbi, Albanesi, Arabi, Africani, Italiani, Persiani, eccetera. L'amore dei turchi per la guerra, per i cavalli e per il loro dio alimentava un'atmosfera strana, quasi eroica. L'impero aveva conquistato così tanti territori e uomini, le sue risorse erano innumerevoli, la sua organizzazione e il suo funzionamento erano così ben rodati, che era difficile immagianrlo sconfitto o anche solo tenuto in scacco. Le città, l'artigianato e il commercio prosperarono, i contadini vivevano di gran lunga meglio che nei paesi cristiani. E anche i sudditi cristiani, chiamati dimmi (<<infedeli protetti>>), non avrebbero rinunciato per nulla al mondo a vivere sulle terre del sultano. 
I Turchi non inducevano i cristiani a convertirsi per forza: si poteva rimanere cristiani e godere della fiducia del sultano e degli alti dignitari. Fu il caso di molti Greci e Italiani, che ne hanno lasciato testimonianza nei loro scritti. 
A partire dal 1447, quando Vlad Dracul concluse la pace con il sultano, i suoi figli vennero trasferiti da Egrigöz alla corte di Murad II. Vlad Dracula e il fratellastro Radu poterono quindi osservare anche la complessità del potere ottomano, Giorgio d'Ungheria, vissuto in Turchia dal 1438 al 1458, descrive il vivaio di giovinetti riuniti alla ccorte del sultano per le cause più disparate: progionieri di guerra, ostaggi dei paesi tributari, figli di cristiani <<raccattati>> per farli diventare giannizzeri: 

Tra questi servitori summenionati, alcuni, a seconda delle qualità di cui hanno dato prova, vengono adibiti alle più alte cariche del regno. E ciò ha come risultato che tutti i dignitari e i principi del regno sono in qualche modo funzionari nominati dal re, di conseguenza il re è il solo signore e il solo proprietario, colui che in tutto il regno può dispensare, distribuire e goveernare i beni, mentre gli altri sono solo organi esecutivi, funzionari e amministratori che eseguono la sua volontà e i suoi ordini. Nel suo regno, non è possibile nessuna opposizione e nessuna resistenza; anzi, uniti in tutto e per tutto come un solo uomo, essi si conformano e si sottomettono al potere unico di un uomo che servono infaticabilmente, e nessuno osa intraprendere nulla senza la sua autorizzazione. E se qualcuno osasse lanciarsi di testa propria in qualche impresa, di grande portata oppure no, verrebbe subito privato di ogni potere, spedito a corte e riabbassato al grado precedente. Quando è il caso, il re può, a piacimento, farlo uccidere, mandarlo in prigione, venderlo o ridurlo in schiavitù, senza tenere in nessuna considerazione al suo rango o la sua persona. 

Vlad rimase colpito da questa società aperta e dinamica, una vera e propria meritocrazia al servizio del solo monarca. Ne analizzò il funzionamento e tentò di applicarlo a Valacchia nel corso del suo regno più lungo, del 1456 al 1462. La <<rivoluzione>> di Calcondila, suo contemporaneo, rileva nei suoi atti.

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martedì 11 dicembre 2018

Dracula. Un'adolescenza valacca

Dracula 

Un'adolescenza valacca

Dracula visse la maggior parte dell'adolescenza in Valacchia. L'insediamento del padre sul trono coincise con l'uscita di Vlad dall'infanzia (puer) e con l'ingresso in una situazione diversa (adulescens), come sempre avviene quando un giovane lascia la società femminile (madre, balie, serve) ed entra in quella degli uomini. Per Vlad quuesto cambiamento coincise con la scomparsa della madre (o con la separazione dei genitori). La rottura del contatto con la madre potrebbe spiegare alcuni tratti del suo carattere, come la durezza e l'insensibilità nei confronti della sofferenza altrui, e in particolar modo le terribili torture e sevizie che avrebbe riservato alle donne, ai bambini e ai neonati. LA presenza al fianco ddel padre di una matrigna, una principessa moldava (Marina?), che darà alla luce due figli - Radu e Alessandra - dovette affrettarer l'ingresso d Dracula nel mondo degli uomini. 
Il primo provvedimento da prendere era la scelta di un precettore. Si sarebbe dovuto occupare dell'educazione dell'adolescente, trovargli i professori e i maestri che gli insegnassero le varie materie previste. Walerand de Wavrin. Si trattava del boiardo che aveva <<ben otant'anni>> nel 1445 e che aveva prestato servizio agli ordini del maresciallo di Francia Enguerrand de Coucy in occasione della crociata di Nicopoli nel 1396. 
Fatto prigioniero dei Turchi era stato venduto ai mercanti genovesi e da essi aveva imparato l'italiano, o, meglio, la lingua franca del Levante. Possiamo supporre che il Vecchio precettore avesse scorrazzato per alcuni anni nel Levante prima di recuperare la libertà e rientrare nel paese natio.  In effetti, nel 1396, i ggenovesi possedevano empori commerciali lungo tutta la circonferenza del Mar Nero, da Caffa in Crimea a Trebisonda e a Pera e a Chio. Poiché nessuno schiavo romeno è stato segnalato a Genova ttra il 1381 e il 1408, si può presumere che il nnnostro precettore fosse rimasto a Pera o in qualche altra colonia genovese del Mar Nero. 
Mircea e Vlad, nati a poca distanza l'uno dall'altro, hanno avuto lo stesso governante nella persona del vecchio signore valacco incontrato da Walerand de Wavrin. L'incarico di precettore del figlio del voivoda non era incompatibile con una posizione di dignitario presso la corte principesca. Nicola Patrascu, il figlio del principe valacco Michele il Bravo (Mihail Viteazul, 1593-1601), n importante banchiere di Istanbul, appartenente alla famiglia imeriale del XIV secolo, Andronico si era rifugiato in Valacchia dove deteneva il titolo di ban e di gran tesoriere. In quanto al precettore di Mircea e Vlad, ci si può chiedere se non si trattasse semplicemente del <<fedele servitore>> di Vlad Dracul, un certo Gianni il Cavaliere (Ionàs Viteazul), che godeva della totale fiducia del principe all'epoca del suo soggiorno a Sighisoara. Viteaz, aveva in origine lo stesso significato del latino miles (soldato di professione), cosa che sembra quasi potersi applicare a Ionàs. Nei paesi romeni questo termine s'incontra fin dal 1369: un Neagu Viteazul viene inviato dal suo principe al monte Athos e più tardi diventa dignitario della corte di Valacchia, comis agazonum o praefectus stabuli. Anche in Moldavia si trova un più di un viteaz tra i membri del consiglio principesco della fine del XIV secolo e dell'inizio del XV, tutti cavalieri e compagni d'amrmi del principe. E Stefano il Grande di Moldavia (1457-1504), dopo una vittoria conferì dei vitezi (plurale di viteaz) sul campo di battaglia. Come fece, peraltro, Dracula. 
Il precettore aveva dunque la totale responsabilità dei giovani principi, che egli affidava ai vari maestri d'armi, d'equitazione, eccetera. L'accentoo veniva messo sull'apprendimento e l'acquisizione delle attività fisiche chiamate <<le sette agilità>>: l'equitazione, il nuoto, l'uso delle armi, il lancio (o il tiro), la lotta, la vita di corte e il torneo. Vlad Dracul, il quale aveva subito a sua volta qusto tipo di educazione presso la corte di Sigismondo di Lussemburgo, voleva insegnare ai propri figli le medisime discipline, anche se il mondo romeno aveva le sue prassi. 


Cavallo arabo



L'equitazione era l'attività prioritaria, essendo il cavallo a quell'epoca il mezzo di trasporto universale, il fedele compagno dei guerrieri, l'animale da tiro per eccellenza. Era allevato e addestrato con passione dai Romeni. Vlad Dracul ne aveva persino regalati due al re Ladislao prima della Campagna di Varna. Il cavallo castrato, dolce e obbediente viene chiamato hongre in francese e Wallach in tedesco, un'indicazione sicura della sua provenienza geografica. I due stati romeni della Valacchia e della Moldavia erano stati fondti grazie alla conquista chiamata in romeno descàlecat (discesa da cavallo), termine derivato dal tardo latino de-ex-caballicare, des-caballicare. Ogni volta che un nuovo re s'insediava sul trono d'Ungheria, la Valacchia era perciò tenuta a offrire un cavallo per famiglia, mentre <<la tassa  (o il dono) del cavallo>> era l'imposta che pagavano al principe gli uomini liberi e i boiardi che compravano una terra. I cavalli della Valacchia e della Moldavia, erano di taglia piccola e a pelo lungo. Ma sapevano dimostrarsi veloci e molto resistenti, e si accontentavano di poco cibo. Le scuderie principesche e quelle dei grandi boiardi contavano cavvalli di razza turchi e arabi da parata. In battaglia, pertanto, i guerrieri preferivano sempre montare i cavalli del loro paese.


Sigismondo di Lussemburgo 

Le truppe inviate dalla Valacchia e dalla Moldavia in aiuto alle spedizioni di Giovanni Hunyadi erano formate, da aricieri a cavallo. Questa cavalleria leggera era l'unica veramente in grado di lottare alla pari contro i Turchi, così come, contro i Mongoli. E nei tempi antichi le frecce dei Daci, gli antenati dei Romeni, erano temute quanto quelle dei Parti, lanciate al galoppo. L'arco preferito dai guerrieri romeni era l'arco duro, formato da tre parti, un'arma messa a punto dai Mongoli e adottata nel Medioevo dai Romeni. Nel 1445 Walerand de Wavrin aveva ammirato le manovre dei cavalieri valacchi che seguivano la flotta crociata sul Danubio ed era rimasto profondamente impressionato dalle grida che essi lanciavano per radunare i cavalli dispersi. Vlad Dracula: nel 1462 attaccò di notte, alla testa delle sue truppe a cavallo, il campo del sultano Maometto II, al quale inflisse pesanti perdite. 
L'apprendimento dell'equitazione andava dii pari passo con quello del combattimento a cavallo, la giostra, il cui equivalente romeno era la harta, termine imparentato con il francese harcelement, <<logoramento>>.
In un'epoca anteriore alla metà del XVI secolo era stato anche introdotto il gioco turco del gerid, in romeno halca, che consisteva nel centrare un anello al gran galoppo con una lancia. Simili festeggiamenti non avevano luogo nei paesi romeni; nel 1412 alcuni cavalieri romeni parteciparono a un torneo organizato a Buda da Sigismondo di Lussemburgo. volesse insegnare ai propri figli le medesime discipline, anche se il mondo romeno aveva le sue prassi. 
L'equitazione era l'attività prioritaria, essendo il cavallo a quell'epoca il mezzo di trasporto universale, il fedele comppagno dei guerrieri, l'animale da tiro per eccellenza. Era allevato e addestrato con passione dai Romeni. Vlad Dracul ne aveva persino regalati due al re Ladislao prima della campagna di Varna. Il cavallo castrato, dolce e obbediente, viene chiamato hongre in francese e Wallach in tedesco, un'indicaione sicura della sua provenienza geografica. I due stati romeni della Valacchia e della Moldavia erano stati fondati grazie alla conquista chiamata in romeno descàlecat (discesa da cavallo), termine derivato dal tard latino de-ex-caballicare, dis-caballicare. Ogni volta che un nuovo re s'insediava sul trono d'Ungheria, la Valacchia era perciò tenuta a offrire un cavallo per famiglia, mentre <<la tassa (o il dono) del cavallo>> era l'imposta che pagavano al principe gli uomini liberi e i boiardi che compravano una terra. I cavalli della Valacchia e della Moldavia, erano di taglia piccola e a pelo lungo. Ma sapevano dimostrarsi veloci e molto resistenti, e si accaontentavano di poco cibo. Le scuderie principesche e quelle dei grandi boiardi contavano cavalli di razza turchi e arabi, da parata. In battaglia, pertanto, i guerrieri preferivano sempre montare i cavalli del loro paese. 
Le truppe inviate dalla Valacchia e dalla Moldavia in aiuto alle spedizioni di Giovanni Hunyadi erano formate, da arcieri a cavallo. Questa cavalleria leggera era l'unica veramente in grado di lottare alla pari contro i Turchi, così come, contro i Mongoli. E nei tempi antichi le frecce dei Daci, gli antenati dei Romeni, erano temute quanto quelle dei Parti, lanciate al galoppo. L'arco preferito dai guerrieri romeni era l'arco duro, formato da tre paerti, un'arma messa a punto dai Mongoli e adottata nel Medioevo dai Romeni. Nel 1445 Walerand de Wavrin aveva ammirato le manovre ddei cavalieri valacchi che seguivano la flotta crociata sul Danubio ed era rimasto profondamente impressionato dalle alte grida che essi lanciavano per radunare i cavalli dispersi. Vlad Dracula nel 1462 attaccò di notte, alla testa delle sue truppe a cavallo, il campo del sultano Maometto II, al quale inflisse pesanti perdite. 
L'apprendimento dell'equitazione presso la corte valacca andava di pari passo con quello del combattimento a cavallo, la giostra, il cui equivalente romeno era la harta, termine imparentato con il francese harcelement, <<logoramento>>. 
In un'epoca anteriore alla metà del XVI secolo era stato anche introdotto il gioco turco gerid, in romeno halca, che consisteva nel centrare un anello al gran galoppo con la lancia. Simili festeggiamenti non avevno luogo nei paesi romeni; nel 1412 alcuni cavalieri romeni parteciparono a un torneo organizzato a Buda da Sigismondo di Lussemburgo. Nella tomba attribuita molto verosimilmente a Vlad Dracula sono stati rinvenuti una corona da torneo e un anello femminile identificato dagli esperti come un anello da torneo!
Un problema che ci si pone riguardo all'educazione dei figli dei principi della Valacchia, concerne l'entità dell'insegnamento teorico. Vlad Dracula noon sapeva scrivere, al massimo sapeva leggere. La prima firma autografa che si conosca di un principe valacco risale al 1534, però è molto probabile che il principe Vlad il Monaco (che regnerà dal 1482 al 1495), figlio illegittimo di Vlad Dracul, essendo stato monaco, sapesse leggere e scrivere. All'epoca lo slavone era la lingua del culto e della cultura, l'equivalente del latino e del greco. Venne impiegato per i documenti e la corrispondenza dei principi valacchi fino al XVII secolo, come fu il caso dei Serbi, dei Bulgari, i Russi e gli Ucraini. In quanto all'insegnamento religioso, esso si limitò probabilmente a qualche rudimento di teologia ortodossa e ad alcune nozioni sulla maestà della funzione regale, come l'elezione per grazia di Dio e le virtù dell'unzione con il sacro crisma. 
Il giovane principe dovette prendere atto del cerimoniale di corte, del ruolo esorbitante svolto dai grandi del paese, della brutalità dei loro conflitti, della precarietà del trono e del peso mediocre della Valacchia nei confronti di quello dell'Ungheria e dell'Impero ottomano. Il ritratto in piedi del nonno paterno, Mircea il Vecchio, ornava le pareti delle sue pie fondazioni: vestito all'occidentale, con la corona regale e le aquile a due teste cucite sull'abito, stemma degli imperatori di Costantinopoli. La vita e le gesta di questo nonno, morto molto prima della nascita di Vlad, dovettero accompagnare gli studi dei due giovani principi. I tempi, erano cambiati, e regni lunghi come quelli di Mircea o di Alessandro il Buono di Moldavia, padre della sua matrigna, sembravano non esistere più. 

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sabato 8 dicembre 2018

Maria Antonietta XI

Maria Antonietta XI

Il filosofo inglese David Hume, che aveva visitato Versailles dieci anni prima dell'inizio del regno di Luigi XVI, era rimasto estasiato dal palazzo: <<Non mangio che ambrosia, non bevo che nettare, non respiro che incenso, non poggio il piede se non sui fiori>>, aveva scritto con entusiasmo. Chiaramente la magnificenza del luogo lo aveva stordito. Versailles, in realtà, era un grande pozzo nero che emanava tanfo di sudiciume e di escrementi. 

Nell'interno del palazzo medesimo, le pareti, i tendaggi e le sontuose tappezzerie emanavano uno sgradevole odore di fuliggine; i samini tiravano male e le stanze erano invase dal fumo da novembre ad agosto. L'odore rimaneva attaccato ai vestiti; alle parrucche, perfino alla biancheria intima. Cosa peggiore di ogni altra, mendicanti, usavano le scale, i corridoi, qualunque angolo  appartato per fare i loro bisogni. Un osservatore del tempo scrisse: <<I passaggi, i cortili, le ali e i corridoi erano pieni di orina e di feci, Il parco, i giardini e il castello facevano vomitare per la puzza>>.

Si trascuravano i dipinti e le statue, si lasciava che i mobili si riempissero di polvere e si scrostature. <<Non perdonerò ma questo paese per la sua sporcizia>>, brontolava Horace Walpole, ed era uno che aveva viaggiato in lungo e in largo. L'accesso a Versailles, conveniva l'inglese, era magnifico, con le sue larghe strade ombreggiate da alberi maestosi. Ma lo squallore dell'interno era indicibile. 

Antonietta con la contessa d'Artois, sua cognata, andò a far visita a Vittoria. Lasciato l'appartamento di quest'ultima, le due donne si fermarono in un cortile per guardare una meridiana. Da una finestra del secondo piano qualcuno vuotò nel cortile un secchio d'acqua di scolo, e le due principesse rimasero inzuppate. Forse non si trattava di un incidente, perché la finestra era una di quelle dell'appartamento di madame Du Barry e le domestiche di costei non amavano certo la delfina. Più probabilmente, però, si trattava di uno dei molti incidenti del genere, assolutamente privo d'intenzione e troppo comune per essere registrato. 

In tutto il castello d Versailles c'erano cani e gatti, molti dei quali selvatici. Abbiamo già parlato della confusione e della sporcizia causata dai cani di Antonietta. Ma anche Luigi teneva dei cani, e nella principale sala da ricevimento di Fontainebleau aveva un grande e spazioso canile. Si trattava di un vero e proprio palazzo in miniatura, costruito in legno di quercia dipinto di bianco con pilastri e modanature dorate, e ddecorato con ramoscelli fioriti dipinti. 

Madame de Guéménée, favorita di Antonietta e governante di Clotilde ed Elisabetta, sorelle di Luigi, era sempre accompagnata da un gran numero di cagnolini. <<Tributava loro una sorta di adorazione>>, riferì Mercy a Maria Teresa, <<e fingeva per loro mezzo, di tenersi in comunicazione col mondo degli spiriti.>>


Nel palazzo potevano entrare praticamente tutti. Si faceva qualche tentativo di tenerne fuori gli individui che in tempi recenti erano stati affetti da vaiolo, ma a chiunque altro era consentito di entrare. L'unico requisito era che gli uomini avessero un cappello e spadino, cose che si potevano prendere in affitto dal portiere. Per gli eleganti saloni e per i lunghi corridoi vagabondavano parigini con le scarpe infangate, ammirando gli arredamenti e gli oggetti d'arte, toccandoli, facendone oggetto delle loro brame. Benché dappertutto ci fossero dei servitori, le cronache del tempo non hanno menzione di guardie che sorvegliassero i visitatori di passaggio per impedire che rubassero piccoli tesori o ritagliassero dai tendaggi tasselli dorati da vendere quando fossero tornati a casa. 

La sera el matrimonio del conte d'Artois, per festeggiare l'avvenimento si tenne un ballo in maschera. Al ballo fu ammesso un certo numero di ladri <<riccamente abbligliati>>, i quali alleggerirono gli invitati di orologi e borse, tabacchiere e gioielli. Ad Antonietta, nel 1771, venne rubata la fede nunziale (anche se essa credette di averla perduta lavandosi le mani) da una donna che se ne servì per fare <<stregonerie intese a impedirle di avere figli>>. Molti anni dopo la ladra confessò la sua azione malevola al parroco della Madeleine de la Cité e il sacerdote mandò la fede nunziale al maarito di Madame Campan con un biglietto di spegazione. 

A Versailless ambasciatori e altri dignitari di paesi stranieri portarono i loro seguiti, completi dii schiavi, domestici civili e animali da diletto esotici. Al palazzo, per esibirsi, si recava gente di spettacolo di ogni sorta, gli attori e glie secutori musicali dei teatri parigini ai domatori d'orsi e agli addestratori di altri animali e che si  guadagnavano la vita sui boulevards. Perfino le squadre di forzati, dirette a Brest ove arebbero state icatenate ai remi delle navi, venivano fatte passare per la cittadina di Versailles, anche se il loro itinerario venne finalmente cambaito durante il regno di Luigi XVI perchè il sovrano, troppo tenero di cuore, ne fceva liberare troppi. 

Un folle del genere era un aristocratico pallido e magro di Bordeaux, uomo il cui <<aspetto sinistro>>, scrisse Madame Campan, <<causava le sensazioni più scgredevoli>>. Si chiamava Castelnaux, ma in genere era designato scherzosamente col nomignolo di <<l'amante della regina>>, perché tale sosteneva di essere. Taciturano, privo d'umorismo e vagamente minaccioso, Castelnaux seguiva Antonietta come un'ombra dovunque lei andasse, e poi dieci anni e più essa tollerò la presenza di quell'uomo ai margini della sua vita. Poiché il suo status di nobile gli dava accesso a corte, egli era in grado di partecipare a ogni cerimonia durante il giorno e la sera, e ara immancabilmente presente andava a sedersi quanto più poossibile vicino alla regina quando costei assisteva alla messa, la fissava per tutta la durata del pranzo, si metteva direttamente dinanzi ai suoi occhi, in modo da costringerlo a guardarlo durante le partite a carte della sera e non distoglieva mai lo sguardo dal suo volto. Quando Antonietta andava a teatro, egli era presente a teatro, quando essa rimaneva al Petit Trianon c'era anche lui, intento a passeggiare incessantemente per il giardino, sulla riva del fossato. Non lo inducevano a star kontano né la pioggia, né i venti gelidi, né il canto più soffocante; come una fantomatica sentinella, egli era sempre al suo posto, al fianco della regina. Quando la corte si trasferiva a Fontainebleau o a Marly, Castelnaux anticipava sempre il trasferimento, in modo da potersi trovare sul posto in attesa  di Antonietta appena questa fosse arrivata. 

Dopo molti anni <<l'amante della regina>> cessò di essere argomento di scherzi e divenne, sempre per usare un'espressione di Madame Campan, <<un intollerabile fastidio>>. Antonietta non volle che qualcuno gli ponesse un freno, ma parlò con un celebre avvocato per vedere se questi poteva persuadere il folle aveva convenuto che, <<siccome la sua presenza le era sgradevole, egli si sarebbe ritirato nella sua provincia>>. La regina ne fu sollevata, ma per breve tempo. La regine ne fu sollevata, ma per breve tempo. Mezz'ora dopo Castelnaux era di nuovo a palazzo e aveva chiesto udienza a Madame Campan. <<E' venuto a dirmi>>, scrisse Madame Campan, <<che ritirava la sua presenza, che non aveva sufficiente padronanza di sé per rinunciare a vedere la regina quanto più spesso possibile.>>

Prostitute adescavano clienti nei cortili e nelle stanze aperte al pubblico, sapendo che sarebbero state tollerate finché fossero rimaste fuori degli appartamenti dei sovrani. Bambini cenciosi e scalzi, molti dei quali privi di una fissa dimora, correvano su e giù per le grandi scale portando messaggi, rubavano il cibo nelle cucine e ogni volta che potevano schiacciavano pisolini nelle stalle e nelle dépendances. Ex servitori affamati, poveri in canna e tutt'altro che puliti, formavano crocchi, sperando di venirre a sapere che c'erano possibilità di assunzione e guardando con ividia i loro colleghi più fortunati che indossavano la livrea del re. Con questa gente continuamente fra i piedi, la pulizia era impossibile, e in ogni caso i servitori erano più preoccupati dalle loro prerogative che dele necessità di eseguire compiti umili come spazzare e pulire. 

Con le sue centianai di servitori, era un meccanismo poco maneggevole e inefficiente, che a volte si inceppava del tutto. In una certa occasione la corte stava procedendo al trasferimento da Choisy a Versailles. Il trasferimento non interferì con la routine delle partite di caccia del re, che procedettero abitualmente. Il trasferimento non interferì con la routine delle partite di caccia del re, che procedettero abituualmente. Antonietta anzi decise di seguire una delle partite di caccia in carrozza, con le tre zie. Quando la carrozza arrivò a un fiume, tuttavia, le zie cominciarono a temere che potesse rovesciarsi, e insistettero per scendere benché si trovassero in <<un luogo estremamente paludoso>>. Scese anche Antonietta, e intraprese la lunga marcia a piedi neecessaria per far ritorno a Choisy. Non c'erano servitori disponibiili per metter in salvo e le sue zie - tutti i domestici erano andati avanti, diretti a Versailles - e la camminata  risultò lunga, tanto che Antonietta si inzuppò tutta. Perse nel fango una delle sue scarpine, e tutti gli indumenti le si infradiciariono addosso. Fortunatamente riuscì ad asciugarsi stando vicina a un focolare acceso, ma in tal modo si bruciacchiò gli abiti. Infine riprese il viaggio e arrivò a Versailles, ove sperava che i domestici avessero preparato il palazzo per il ritorno della corte. 






Per il cortigiano la scomodità era uno modo di vita. Vivendo in alloggi scomodi e bui, restando in servizio per orari prolungati, destreggiandosi continuamente per conquistare un pò di spazio nei saloni sovraffollati, in mezzo a <<una folla terrificante, che fa un baccano infernale>>, come scrisse uno di loro, gli abitanti di Versailles soffrivano per il loro status. Non osavano rilassarsi, mostrarsi stanchi o far capire quanto si annoiavano. Era una necessità apparire gradevole, sorridere quando le scarpine di broccato facevano male ai piedi perché erano troppo strette, quando la pelle prudeva a morte, quando una rivale aveva la meglio nella scalata al favore dei grandi. 

Il fine di ogni cortigiano era di accumulare cariche, privilegi e in ultima analisi, ricchezze. Ma il prezzo da pagare era elevato. Il gentiluomo o la dama di corte doveva starsene in piedi, per ore, nell'oeil-de-boeuf, l'<<occhio di bue>>, cioè la stanza accanto alla camera da letto del re, illuminata da una sola finestra fi forma rotonda, in attesa di essere notato, di essere ammesso nel santtuario o di udire  di sfuggita qualche pettegolezzo o qualche notizia che potesse aiutarlo o aiutarla a far carriera. Doveva partecipare a spettacoli tediosi. Per un certo ballo tenutosi a Versailles i cortigiani dovettero imparare una complessa serie di movimenti coreografici che servivano a formare le lettere del nome di Antonietta. Il cortigiano doveva adulare, persuadere, blandire i suoi superiori, lottando nello stesso tempo per tenere al loro posto i suoi inferiori. 

Coloro che non avevno il privilegio di pranzare alla tavola del re e della regina o a quella dei grandi personaggi di corte andavano al Grand Commun, l'immensa sala da pranzo comune del palazzo, ove si poteva godere di un buon cibo, e in compagnia altrettanto buona. Il mondo dei frequentatori del Grand Commun era gradevole e stimolante. In quella casa si incontravano artisti, studiosi, scrittori. Si parlava incessantemente di politica e di affari correnti, sii discuteva sulle questioni del momento. Si ordivano intrighi. si attizzavano ambizioni. Si dava libero sfogo alle lamentele. <<Era di moda lagnarsi di tutto>>, scrisse la contessa de la Tour du Pin. <<C'era chi si annoiava, o era stufo di prestare servizio a corte. Gli ufficiali della Guardia del Corpo. che quando erano in servizio alloggiavano nel castello, lamentavano di essere costretti a indossare l'uniforme per tutta la giornata.>>

Dame e gentiluomini di corte si lagnavano delle spese che dovevano sostenere per abigliarsi secondo la moda del momento; si lagnavano, per esempio, del costo delle parrucche (le migliori erano quelle fatte con i capelli umani, la cui qualità era di gran lunga migliore rispetto a quelle fatte con crine di cavallo o con pelo di capra), delle alte tariffe dei migliori acconciatori, delle interminabili prove degli abiti da donna e da uomo, delle sempre muttevoli esigenze della moda. A quanto pareva, nessuno aveva mai abbastanza denaro; i debiti salivano, eppure era pericoloso fare economia, perché il cortigiano che spendeva di più anche se doveva trattarsi di denaro preso in prestito. aveva la migliore possibilittà di recuperare quanto aveva speso una volta che fosse riuscito a conquistare la posizione di favore perseguita. 

Negli ultimi anni del regno di Luigi XV una ggraziosa giovinetta di quindici o sedici anni riuscì a raggirare un buon numero di persone facendo credere di essere l'amante del re. Si ignora come le fosse venuta l'idea, e se nella truffa fosse coinvolto qualcuno oltre a lei; quello che è ciaro però, è che seducendo alcuni dei paggi del sovrano essa riuscì a ottenere libertà di accesso all'appartamento reale. Una volta conquistata questa libertà d'accesso, riuscì a convincere la gente di avere col re i rapporti più intimi, e di poter esercitare su di lui la propria influenza a suo beneficio. Avidi di ulteriori vantaggi, per quanto limitati, i cortigiani furono più che pronti a pagare per assicurarsi la sua influenza.

In breve tempo la ragazza accumulò qualcosa come sessantamila franchi, e inoltre molte agevolazioni e molti favori. Fece chiamare un chirurgo perché assistesse una donna che aveva le doglie, convincednolo che avrebbe aiutato quella donna a mettere al mondo un bastardo del re, e che quindi avrebbe dovuto considerarsi onorato. Indubbiamente nello stesso modo imbrogliò commercianti e sarti. Erano le apparenze quelle che contavano, e la ragazza, stando alle apparenze, era indubbiamente quella che sosteneva di essere. Dopo tutto, la passione del sovrano per le belle fanciulle era ben conosciuta e la ragazza in questione bella era molto e inoltre, stando a Madame Campan, che la conobbe, teneva un comportamento così modesto che nessuno la sospettava di disonestà. 

Astuta sino alla fine, cercò di salvarsi dal castigo ricorrendo a un'altra menzogna fabbricata di sana pianta. Alla tenera età di quattordici anni, disse, era stata sedotta da un prete, il quale l'aveva costretta ad atteggiarsi ada amante del re per arricchirsi egli stesso. Il sacerdote venne sospeso dagli uffici divini, ma poi riuscì a dimostrare la propria innocenza. La ragazza fu mandata in un primo tempo alla Bastiglia, poi in un altro carcere. 

Cahouette de Villars, che Madame Campan descrisse in seguito come una donna <<molto irregolare nel comportamento, e di carattere assai intrigante>>, si atteggiò anch'essa ad amante di Luigi XV e, dopo la morte del sovrano, ad amica intima della regina Antonietta. Il marito di Cahouette era un tesoriere del re, ma siccome non aveva il diritto di entrare nell'appartamento della sovrana, sua moglie di diede da fare per diventare l'amante di uno che questo diritto lo aveva: Gabirel de Sainte-Charles, intendente delle finanze del re. 

Essendo discretamente brava come pittrice, escogitò un piano per accostare direttamente Antonietta, facendole il ritratto. Copiò un ritratto eseguito da un altro pittore e lo presentò al marito di Madame Campan, che era il bibliotecario della regina e uno dei suoi segretari, ma egli, <<conoscendo il comportamento della donna>>, si rifiutò di consegnarlo ad Antonietta. 

Cahouette si impadronì quindi di alcuni documenti firmati da Antonietta, e mparò a riprodurre la sua esecrabile e particolarissima grafia. Più abile come falsaria di quanto fosse stata come pittrice, la donna scrisse a se stessa un certo numero di lettere e biglietti presuntamente firmati dalla regina, e li riempì di allusioni personali e vezzi familiari. Mostrò quindi le missive ad amici e conoscenti, sostenendo che la sua amicizia con Antonietta era un <<grande segreto>> proprio come lo era stata la sua relazione col defunto sovrano. Naturalmente la reputazione della donna aumentò, facendola sembrare una che godesse delle confidenze intime della regina. 

Cahouette fabbricò lettere false in cui la regina la pregava di acquistare gioielli e altri oggetti costosi presso negozianti di Parigi; alla donna bastava mostrare le suddette lettere ai gioiellieri e ai commercianti perché le fosse consegnato tutto quanto desiderava,e , inoltre, perché  le fosse concesso credito illimitato. Non soddisfatta di ciò, Cahouette finì per accostare il Fermier-Gènéral, M. Béranger, il quale controllava gli introiti tributari, e mostrargli una lettera contraffatta in cui Antonietta gli chiedeva di procurarle duecentomila franchi, somma di cui aveva un estremo bisogno, ma che era riiluttante a chiedere al consorte. 

M. Béranger, azzardò qualche domanda, con molta discrezione perché c'era sempre la poossibilità che la richiesta di Antonietta fosse stata autentica, e che rivelando il segreto della regina egli mettesse in pericolo se stesso. Quanto venne a spare in risposta a quelle prime domande gli diede però coraggio, e infine egli si rivolse alla polizia di Parigi. Questa riuscì a rintracciare i conti non pagati di Cahouette, gli oggetti preziosi da lei impegnati, e a verificare l'infondatezza delle sue vanterie. L'imbrogliona venne smascherata e incarcerata, e il suo povero marito fu costretto a rimborsare i duecentomila franchi. Le lettere falsificate, trovate fra gli effetti, personali di Cahouette, furono mandate ad Antonietta. Questa e Madame Campan le esaminarono una per una e contrastarono, con sgomento, che la falsificazione era notevolmente persuasiva.

La contess di Walburg-Fohberg, una sveva sposata con un dignitario di corte di secondaria importanza, fece credere di essere in rapporti d'intimità con parecchi personaggi, dal ministro degli Affari esteri al primo scudiere della regina. Anch'essa disponeva di lettere per accreitare le proprie asserzioni, e le sue vittime erano fin troppo disposte a credere che le lettere erano autentiche. Nelle stanze prese in affitto all'Hotel Fortisson, un albergo della cittadina di Versailles, la contessa intratteneva una corte in miniatura tutta sua, ricevendoin visita postulanti che la pagavano affinché perorasse le loro ragioni presso i grandi. 


Madame Campan

La contessa, finse di avere il diritto di partecipare con la sua carrozza a un corteo reale. Venne riconosciuta e interrogata, e un tenente della polizia aprì un'inchiesta sul suo comportamento. Ben presto tutto venne in luce. La contessa, però era stata abbastanza scaltra da non lasciarsi dietro nulla d'incriminante. La polizia aveva a sua disposizione soltanto la parola delle sue vittime secondo cui essa aveva preso il denaro da loro; la contessa, invece, sosteneva di aver fatto uso della propria influenza a beneficio delle suddette vittime per pura cortesia, e che nessuna somma di denaro era passata da una mano all'altra. Era evasiva, la contessa di Walburg-Fohberg conosceva un gran numero di segreti, ed era in grado di mettere in difficoltà alcuni personaggi molto importanti. 

Queste imposture riuscivano non solo perché i cortigiani e aspiranti cortigiani erano creduloni, ma anche perché volevano disperatamente aver successo. La mitologia della corte era per alcuni più forte della realtà di fatto, e imponeva che gli ambiziosi, coloro che lavoravano sodo, coloro che godevano di buone relazioni avrebbero finito per conquistare cariche e ricchezze. Versailles esercitava un incantesimo su coloro che ci vivevano, ci prestavano servizio e la visitavano.

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giovedì 29 novembre 2018

Maria la sanguinaria. La Principessa III

Maria la sanguinaria

Parte I La principessa III

Prego ogni giorno che le loro pene siano alleviate e che presto siano mandati dove staranno meglio, senza malattie o avversità. 


Nell'inverno 1517, alla metà di gennaio, un forte gelo colpì Londra. Le strade erano coperte di neve indurita e scivolosa, le acque del Tamigi ghiacciate in profondità. Coloro che avevano da sbrigare affari a corte erano costretti ad andare a Londra a Westminster a piedi invece che in battello, e poiché il fiume non dava segni di disgelo i cittadini aprirono infine un camminamento nell'alto strato di ghiaccio. Il tempo non migliorò in febbraio. L'ambasciatore Giustiniani, che doveva recarsi a Greenwich per vedere il re, lamentò che era ancora impossibile utilizzare i battelli e che <<il gelo e le strade pericolose>> trasformarono qualsiasi viaggio in un rischio mortale. Il freddo intenso era sopraggiunto nel mezzo di un periodo di insolita siccità: nell'Inghilterra sudorientale non piovve dal settembre 1516 al maggio successivo. I lussureggianti pascoli verdi avevano assunto un orrendo colore verde marrone, i piccoli corsi d'acqua si erano prosciugati e gli agricoltori, per allevare il bestiame, dovevano spingere le greggi per tre o quattro miglia.

Le vittime del morbo - probabilmente un'influenza con complicazioni polmonari - <<sudavano a dismisura, emanavano cattivo odore, si arrossavano in faccia e sul corpo, avevano una continua sete e soffrivano di febbre alrissima e di mal di capo>>. Sulla testa e sul corpo comparivano poi eruuzioni cutanee e pustolose, da cui talora fuoriusciva siero e sangue, e quasi tutti i malati morivano prima ancora che si potesse ricorrere a una cura. Era in particolare la spietata repentinità del deccesso a terrorizzare la popolazione. La gente s'ammalava per strada. al lavoro, in chiesa; poi correva a casa, dove collassava a terra e moriva. Un medico che aveva studiato per diretta esperienza molti casi scrisse che la strana malattia colpiva <<alcuni mentre aprivano le fienstre, altri mentre giocavano con i bambini dinanzi alla porta d'ingresso; alcuni in un'ora, molti in due; il male distruggeva... chi dormiva e chi era sveglio, gli allegri e i preoccupati, i digiuni e i satolli, gli indaffarati e gli oziosi; e in una sola famiglia talvolta tre persone, talvolta cinque, talvolta di più, talvolta tutti>>. 

Quanti ne ebbero la possibilità, abbandonavano la città imediatamente, ma la maggioranza dovette rimanervi per seppellire i morti, far la guardia ai propri beni, guadagnarsi da vivere. E presto non vi fu alcun luogo in cui rifugiarsi, perché le campagne circostanti erano ormai infette quento la capitale. Verso la metà dell'estate i londinesi si erano ormai quasi assuefatti alla paura della morte, alle porte e alla e finestre sbarrate, ai presunti guaritori che vendevano toccasana preventivi e curativi per le strade, al panico che si diffondeva tra la folla quando un passante, lamentandosi e reggendosi la testa, incespicava nella corsa verso l'ineluttabile fine. L'ambasciatore francese a Londra scrisse in patria raccontando che uomini e donne <<magri come mosche fuggivano in fretta da vie e negozi>> non appena sentivano i sintomi della malattia; la vista di una persona barcollante era sufficiente a creare ovunque un rapido vuoto. In quell'estate morirono decine di migliaia di inglesi, e per i sopravvissui fu un ritorno alle spaventose morie delle pestilenze medievali. Molti giudicavano il sudore anglico, ribattezzato <<Visitazione del Signore>> e <<Segno di Dio>>, peggiore della peste, che almeno aveva un'incubazione più lenta e che lasciava in vita i colpiti per giorni e anche per settimane. 


Erasmo da Rotterdam


L'epidemia del 1517 non era la prima del genere. Nell'state del 1485 e poi di nuovo nel 1508 lo stesso misterioso morbo si era diffuso nell'Inghilterra mridionale, provocato, si era detto, dall'ira divina per la crudeltà del governo di Enrico VII. La sua ricomparsa sotto il regno del figlio determinò l'adozione di una serie di terapie per prevenrilo e curarlo: sembrava evidente che la micidiale infezione apparsa per la prima volta all'ascesa al trono della dinastia Tudor darebbe continuata insieme con essa. Uno dei medicinali più usati era un miscuglio di indivia, cicerbita, calendula, mercurio e belladonna; un altro si basava su <<tre cucchiaiate di acqua e di dracena e una mezza noce di corno di unicorno>> ((nei tesori inglesi venivano conservati con reverenza come corn di unicorno le aguzze punte dei pesci spada). Si raccontava che quest'ultima pozione avesse fatto superare senza problemi un'intera estate di pestilenza a Lord Darcy e trenta membri della sua famigliaa, sebbene fossero stati tutti esposti al contagio. 

Come cura più completa per il sudore anglico passò, cmunque, la triade di prescrizioni messe a punto dal sovrano stesso. Probabilmente a causa della sua paura fobica per tutti i malanni e in particolare per le epidemie, Enrico era diventato un provetto farmacista dilettante, sempre felice di regalare ritrovati per ogni sorta di male ad amici e parenti. La prima fase della cura inventata dal sovrano, la fase preventiva, consigliava un influsso di erbe (tra cui sambuco, erica e zenzero) in vino bianco: bevuto in piccole quantità ogni giorno, per nove giorni, manteneva <<sani per un anno intero, con l'aiuto di Dio>>. Se la malattia avessse colpito prima del non giorno di trattamento, si passava alla seconda fase, curativa, che imponeva una bevanda di acqua di scabiosa e acqua di betonica in parti uguali, addolcita da un quarto di melassa. 

Le medicine di Enrico non riuscirono, purtroppo, a tenere lontana l'epidemia dalla sua corte. Il segretario Ammonius morì il giorno prima della partenza per una casa di campagna situata in una zona non infetta. Wolsey invece scampò a stento alla morte poco dopo, ma un certo numero di cortigiani e servitori non fu alrettanto fortunato. Si ammalarono il vescovo di Winchester, così come l'ambasciatore Giustiiniani e il figlio, e quando cominciarono a soccombere l'uno dopo l'altro i paggi che dormivano nella sua camera da leto, il sovrano cedette al pensiero e decise di trasferire altrove la corte. Con Caterinna e la piccola Maria, tre dei gentiluomini più fidati e l'organista preferito, Dionysius Memo, Enrico raggiunse <<una lontana e insolita abitazione>> per attendersi la fine del pericolo. Tuttavia il morbo lo raggiunse anche lì e le voci di persone morte a pochissima distanza lo spinsero a spostarsi in continuazione, sempre inseguito dalle ondate di contagio. Nel frattempo anche i certigiani si spostavano tra i vari palazzi, nelle speranze di sottrarsi all'infezione, ma nella primavera del 1518, quando l'epidemia raffiorò più virulenta che mai e resa ancora più insidiosa dal morbillo e dal vaiolo che ora l'accompagnarono, i paggi del re ripresero a morire. 

Questi rudiimentali sistemi di quarantena avrebbero dovuto circoscrivere i focolai epidemici, ma non venne presa alcuna misura a proposito dei peggiori agenti infettivi: i cibi, l'acqua, la scarsa o inesistente igiene personale e domestica. All'inizio del Cinquecento Londra era una città di medie dimensioni che si stava rapidamente trasformando in una metropoli superaffollata, soffocata da luridi vicoli e casupole non meno luride. Pulci, pidocchi e cimici si annidavano ovunque: negli oggetti di legno, nei pavimenti, nei letti, negli armadi, insetti di ogni sorta infestavano i contenitori delle derrate e i panni di lana. 
Se le case della Londra tudoriana erano a dire poco principesche, le sue strade era depositi di sporcizia. Non selciate, piene di buche e di sochi, alternativamente fangose o polverose, tutte erano ricoperte di ogni specie di avanzi, rifiuti, lordure. La spazzatura somestica, così come i residui delle pentole da cucina e delle vasche dei tintori vi si mescolava con gli escrementi di cavalli, cani e uccelli. I vasi da notte delle case allinetate su vie e vicoli venivano vuotati ogni mattina o dinanzi agli usci o direttamente dalle finestre sul piano superiore; e, via via che crescevano, i cumuli di rifiuti erano radunati in montagnole ai crocicchi, di dove li si rimuoveva raramente per buttarli nel fiume o trasportarli ai margini delle grandi strade che condicevano fuori città. 

Il più noto censore dei primitivi costumi era Erasmo, il famoso umanista olandese. Nelle lettere agli amici gli sottolineava acccuratamente come le case dell'isola fossero costruite in modo da massimizzare i rifiuti e allo stesso tempo minimizzare l'esposizione all'aria fresca e alla luce del sole. Sarebbe stato necessario, aggiungeva, ripulire le strade dal fango e dall'urina e, soprattutto, abbandonare la deprecabile consuetudine di cospargere di paglia i pavimenti in terracotta delle case per nascondere le briciole di cibo, schizzi di birra e ossi; la paglia veniva cambiata quando l'odore diventava intollerabilmente acre, ma uno strato inferiore, incollato al paviento da anni di sputi, vomiti e <<bisogni di cani>> restava lì, a suo parere, per decenni. Erasmo condannava anche altre abitudini che di certo facilitavano contagi: il superaffollamento nelle taverne male arieggiate, il poco frequente cambio delle lenzuola, l'uso di un unico bicchiere da parte di molti, la mania di baciarsi a ogni incontro. Le vedute di Erasmo cuscitarono un certo consenso, ma anche un risentimento e sbeffeggiamenti. Aveva esagerato, riteneva qualcuno, nel sostenere che perfino le grate dei confessionali, l'acqua e l'olio benedetti dei battesimi e i grandi pellegrinaggi cntribuivano a diffondere le infezioni!

Molta gente collegava le malattie non alle insalubri condizioni di vita ma a fattori soprannaturali. Per ogni medico che curava i pazienti affetti dal sudore anglico aprendo loro le vene per un salasso o rinchiudendoli in una camera caldissima completamente avvolti in coperte (una terapia dall'esito abitualmente letale), erano almeno una dozzina i ciarlatani impegnati ad ammannire rimedi associati a pratiche superstiziose o occultistiche. 
Queste in realtà erano il risultato di una visione fondamentalmente provvidenziale non solo delle malattie ma ance del complesso delle vicende umane. La popolazione dell'età tudoriana accettava le devastazioni del sudore anglico così come accettava i danni delle inondazioni o delle morie in massa del bestiame perché li riteneva compresi in un vasto disegno incomprensibile e invisibile alle creature terrestri. L'autore del disegno era Dio, ma questa credenza era religiosa solo in senso lato: era più che altro una fede nella supremazia dell'ordine sul caos. Nessuno accoglieva di buon grado un'epidemia, eppure tutti traevano un qualchhe conforto dalla convinzione che il malanno era stato mandato da un Potere superiore per uno scopo preciso. 

Morivano le persone <<più giovani e più belle>>, <<gli uomini di mezza età col fisico sanguigno>>. Era più probabile, paradossalmente, che sopravvivessero i più deboli e i più poveri. I bambini, le donne in età feconda, gli uomini macilenti per la fatica e per la fame o erano risparmiati dall'epidemia o, riuscivano in genere a superare la fase critica e infine a guarire. I gentiluomini ricchi e maturi cadevano stecchiti a centinaia. 
Il fatto che il morbo mietesse il maggior numero di vittime tra i membri meglio nutriti, più danarosi e privilegiati della società offendeva la comune fiducia nell'ordine delle cose, prospettando la sconcertante possibilità che l'ordine avesse solo un tenue vantaggio sull'anarchia e che il futuro avrebbe potuto portare l'imprevisto oltre il prevedibile. Minacccia che colpiva diritto la più profonda fobia dell'epoca: il terrore che l'intero ordine sociale potesse frantumarsi. 

Fu in questo periodo di panico e di repentini cambiamenti di residenza che la principessina Mara trascorse i primi mesi di vita. All'inizio la piccola era stata affidata a una nobile balia, Kaetherien Pole, nuora della contessa di Salisbury, che fu poi sostituita da Lady Margareet Bryan, insignir dell'appellativo di <<Lady governante>> e incaricata di dirigere il piccolo gruppo di uomini e donne che costituivano il seguito personale di Maria: le quattro bambinaie (Margery Parker, Anne Bright, Ellen Hutton, Margery Cousine), il lavandaio Avys Woode, il cappellano e il segretario privato, sir Henry Rowte. La principessa aveva anche una sua corte, che era presieduta dalla contessa di Salisbury e che annovervava un ciambellano, un tesoriere, le donne  addette alla camera da letto e vari attendenti, tutti indistintamente abbigliati con i colori di Maria, il blu e il verde. Con l'arrivo dell'epidemia nel palazzo, comunque le formalità, di corte erano state dimenticate e il re si era affrettato a prendere con sé la famiglia e pochi intimi per allontanarsi il più possibile dal pericolo. Dovendo abbandonare le dimore londinesi - gli appartamenti della Torre, lo spazioso Bynard's Castle in Thames Street - e non potendo recarsi nella residenza preferita di Greenwich, sul Tamigi, un bell'edificio di mattoni rossi circondato da verdi giardini piieni di fiori, ma troppo vicino al cuore della città per garantire tranquillità nel dilagare dell'infezione, Enrico aveva trovato dapprima rifugio nel palazzo turrito di Richmond, nel Surrey; tuttavia poco dopo avrebbe saputo che un villaggio vicino era stato raggiunto dal morbo e nel giro di qualche ora sarebbe corso via per cercare zone di volra in volta ritenute più sicure. Dei rigurardi del magnifico castello medievale di Windsor egli provava una profonda avvrsione, lo trovava cupo e troppo simile a un luogo di clausura: a lui piacevano i parchi, le aperte distese della campagna e, possibilmente, la vicinanza del fiume. A Greenwich il sovrano poteva camminare fino al molo per ispezionare le navi e parlare con marinai e cannonieri; a Windsor, invece, si sentiva chiuso tra cortili lastricati e, se entrava nella cappella della Giarrettiera, pativa l'oppressione delle tombe e dei monumenti di cavalieri dell'ordine, di tanti cimeli militari dei Plantageneti suoi predecessori. Le altre residenze di campagna, più lontane, erano piccole e in taluni casi in rovina. 

Francesco I


Claudia di Francia 


Solo verso la fine dell'estate del 1518, quando Maria aveva due anni e mezzo, la corte cominciò finalmente a riprendere le comuni abitudini, compresi i soliti periodici <<trasferimenti>> da un palazzo all'altro. Le faiglie reali vivevano vite da seminomadi, raramente trascorrevano più chhe poche settimane nella stessa località. Ma in tempi noormali gli spostamenti venivano programmati, secondo un ordine stabilito, ed era stato in ottemperanza a quest'ordine che la corte di Enrico aveva fatto ritorno. 
La ripresa della normalità fornì a Maria la prima occasione di sostenere un ruolo importante negli affari di stato. Poiché la rivalità tra Francia e Inghilterra non era affatto sopita, a Enrico venne subito in mente di usare la figlia come un'arma diplomatica. Soltanto una guerra o un gesto eclatante e di fraterna amicizia da parte sua avrebbe soddisfatto il nuovo sovrano francese, Francesco I, ansioso di dimostrare la forza propria e quella del suo paese. Egli aveva una figlia, Francesco un figlio: una promessa di matrimonio fra due rampolli reali era l'ovvia e migliore alternativa a una guerra. 

Inghilterra e Francia avrebbero scritto un trattato di pace universale, consacrato dall'unione del delfino con la principessa inglese, nozze che sarebbero state celebrate subito per procura e consumate quando il delfino avrebbe compiuto quattordici anni. Tra le clausole relative ai diritti dotali di Maria era stato compreso un accordo, di enorme significato, secondo cui, se Enrico fosse morto senza lasciare eredi maschi, gli sarebbe succeduta la fiiglia: il primo riconoscimento del suo diritto al trono. Per i diplomatici, comunque, questo punto era di secondario rilievo, in quanto vi erano ancora molte buone speranze che Enrico potesse avere un figlio maschio - Caterina era incinta  di nuovo e prossima al parto - e, in ogni caso, nessuna donna era mai stata incoronata regina d'Inghilterra se non come moglie del sovrano regnante. 

Gli ambasciatori della corte francese arrivarono in Ighilterra a metà settembre, per firmare il trattato e celebrare il matrimonio. Nell'attraversare Londra a cavallo, i francesi offrirono uno spettacolo di grande sfarzo, vestiti con farsetti di seta e circondati dalle guardie reali scozzesi di Francesco, nonché una scorta d'onore di quattrocento cavalieri locali, nobili e guardie reali inglesi. A ogni cerimonia e banchetto dei giorni successivi gli ospiti indossarono sempre abiti nuovi anche questi di seta, con grande meraviglia dei cortigiani di Enrico. Inoltre il loro apparentemente inesauribile guardaroba era all'altezza delle loro borse: tutti giocavano e scommettevano cifre enormi; nessun banchetto ufficiale era completo senza i giochi di carte e di dadi di cui il re era appassionato. Alla sontuosa festa offerta da Wolsey - ora nominato cardinale oltre che legato pontificio, e prossimo a diventare l'uomo più potente d'Inghilterra dopo Enrico - per festeggiare il trattato di pace uniiversale, al termine del pranzo furono posti dinnanzi ai commensali dadi e coppe d'oro piene di ducati affinché ciascuno potesse puntare a piacimento. 

Nell'attesa della cerimonia nunziale, le due parti giurarono gli accordi del trattato dinanzi all'altare maggiore della chiesa di San Paolo. Alle otto di mattina del 5 ottobre la fidanzata e i rappresentanti del fidanzato, accompagnati dalle relative scorte, si incontrarono in una sala del palazzo di Greenwich. Enrico era in piedi dinanzi al trono con al fianco Caterina, la sorella di Maria, Wolsey e un altro legato papale, il cardinale Campeggio. Durante il lungo discorso pronunciato dal vescovo di Durham per elogiare la reale unione - almeno il terzo del genere in cui i francesi erano stati sottoposti dall'arrivo - Maria, in braccio alla bambinaia, stette accanto alla madre: aveva un vestito in tessuto d'oro e sui riccioli biondi un cappello di velluto nero ornato di gioielli. Piuttosto piccola per la sua età e dall'aspetto delicato, la bella carnagione e gli occhi chiari del padre rendevano i suoi lineamenti nel complesso molto graziosi. Rimase sorridente e tranquilla per tutta l'interminabile orazione, confermando l'orgogliosa vanteria di Enrico, il quale voleva sostenere che <<la figlia non piangeva mai>>. Quando il vescovo ebbe terminato di parlare, gli ambasciatori chiesero a Enrico e a Caterina il consenso al matrimonio; quando l'ammiraglio francese Bonnivet acconsentì in nome del delfino e Wolsey infilò all'indice di Maria un anello con un enorme diamante, il dono nunziale alla sposa. L'ammiraglio, che rappresentava lo sposo assente, spostò quindi l'anello dall'indice all'anulare con un gesto solenne e subito dopo tutti passarono nella cappella, riccamente decorata, per assistere alla messa. 

La visita degli ambasciatori francesi in Inghilterra non era che la prima parte della procedura prevista per la stipulazione del trattato e del matrimonio; per completarla gli ambasciatori inglesi dovevano ora andare a Parigi, dove avrebbero controfirmato il trattato e rappresentato la principessa in una replica del matrimonio per procura. Gli inglesi arrivarono a Parigi ai primi di dicembre e pochi giorni dopo il re concesse loro un'udienza ufficiale, ricevendoli in una vasta sala dall'alto soffitto decorato con i gigli di Francia e dalle pareti abbellite da arazzi. Metà della sala era occupata da una pedana di notevole altezza, da cui si ergeva, sul fondo del salone, una seconda pedana di limitate dimensioni, ricoperta di velluto violetto a gigli bianchi e destinata a reggere il trono: una poltrona tappezzata in broccato d'oro con un baldacchino dello stesso tessuto. Francesco I, seduto sul trono, indossava uno sfavillante abito in tessuto d'argento, con ricami floreali e bordato di piume di airone; i suoi piedi poggiavano su un cuscino in tessuto d'oro. Sulla prima pedana, ai lati del trono, erano schierati in numero se file nobili ed ecclesiastici locali, il nunzio pontificio e gli ambasciatori  stranieri residenti alla corte francese. Alla sinistr del re, su una piattaforma leggermente più bassa della sua, a una certa distanza del trono e nascosta al pubblico da un tendaggio, erao sedute la regina Claudia, la madre del sovrano Luisa di Savoia e le dame di compagnia. 
Gli ambasciatori inglesi, che per quest'udienza avevano indossato i loro corsetti più ricchi, collari d'oro e cinture ingioiellate, furono preceduti nel salone da una scorta di duecento gentiluomini armati di asce, i quali salirono sulla prima piattaforma per disporsi ai lati del re. Francesco, fino a quel momento immobile in posa regale, rispose ai profondi inchini degli ospiiti con affettuosa cortesia e si alzò dal trono per andare a salutarli uno per uno. 

Qualche tempo dopo le due parti giurarono di rispettare il trattato nel corso di una messa solenne nella cattedrale di Notre-Dame e alla fine della messa Francesco e Claudia, in rappresentnza del delfino, sposarono la principessa Maria, rappresentata dal conte di Worcester. Durante le varie cerimonie Francesco fece del suo meglio per dimosgrarsi solenne, e nello stesso tempo affabile, ovvero per offrire una precisa immagine della sua regalità pur essendo gentile e amichevole verso gli ospiti. Li accompagnò quindi a cacce all'orso e al cervo, giostrò con loro e in loro onore, offì banchetti e spettacoli tali da uguagliare e anzi superare, così almeno egli sperava, i pomposi banchetti svoltisi in Inghilterra. Il cortile all'interno della Bastiglia era stato lasctricato con un pavimento di legno, nel cui centro era stato lasciato un ampio spazio per le tavole da prenzo e le tre gallerie per gli spettatori tutt'intorno. L'intera area era stata protetta con un tendone di tela blu, a formare come un padiglione, e lunghi drappi con i colori del re, ianco e bronzo, simulavano le pareti. Qui Francesco organizzò una splendida festa, seduto sotto il suo baldacchino d'oro e circondato in rigoroso ordine d'importanza, da familiari e cortigiani. Gli inglesi inviarono a Enrico dettagliati resoconti della serata, descrivendo il meraviglioso efetto degli alti lampadari, illuminati ciascuno da sedici torce, che rischiaravano il soffitto blu su cui erano stati dipinti in oro i pianeti e i segni dello zodiaco. I cibi erano stati serviti su piatti d'oro e d'argento e lacune delle vivande, tra lo stupore dei commensaali, erano apparse <<emettere fuoco e fiamme>>. Inoltre ogni portata era presentata con lo sfarzo riservato ai dignitari in vista, venendo preannunciate da squilli di tromba, con varie guardie e servitori al seguito dei trombettieri, cinque araldi avevano segnalato l'arrivo di otto siniscalchi della corte, che a loro volta avevano fatto ala all'ingresso del gran cerimoniere; gli addetti alla mensa, ventiquattro paggi d'onore e duecento servitori, avevano portato in tavola il pesce, la carne e la selvaggina. 

Alla fine del pasto si erano esibiite a turno sei compagnie di danzatori in maschera. Tra le maschere era poi aparso anche il sovrano, con un travestimento che evocava perfettamente la magia e la sacralità del suo caratttere regale: una lunga e aderente tunica di seta bianca, simile alla veste candida indossata da Cristo nei dipinti religiosi. La somiglianza con la familiare immagine del Salvatore era rafforzata dalla gioventù, dalla barba e dai capelli neri del sovrano, il suo volto e il suo portamento solenne avvevano destato in tutti una sensazione profonda e inquietante. Sulla tunica erano attaccati <<compassi e dischi>>, simboli occulti il cui significato era sfuggito agli astanti e aveva enfatizzato l'aria di mistero del personaggio. La comparsa di un gruppo di ragazze con corti <<bustini all'taliana><, incaricate di distribuire vino e dolciumi, aveva rotti di colpo l'incantesimo e la serata si era chiusa tra balli e bevute. Fortunatamente, avevano spiegatogli ambasciatori inglesi, il telo che fungeva da soffitto era stato incerato bene, sicché solo poche gocce della fitta pioggia caduta sul padiglione erano filtrate sulle teste degli ospiti. 

Tra i festeggiamenti a Londra e quelli a Parigi, Caterina ebbe l'ultima grande delusione. Si sperava e attendeva da tempo che desse alla luce un maschio. <<Che Dio le conceda di partorire un figlio>> aveva scritto Giustiniani a Venezia negli ultimi mesi di gravidamza della regina, <<di modo che in caso di necessità, avendo infine un erede, il re possa non essere ostacolato nnel desiderio d'intraprendere una qualsivoglia grande impresa.>> Un figlio maschio avrebbe garantito che la corona non sarebbe passata a Maria e, tramite lei, al futuro marito, il delfino di Francia; un figlio avrebbe rinsaldato la dinastia Tudor, rassicurato il re, soddisfatto i sudditi. 
All'ottavo mese, invece, Caterina partorì una bambina morta. Giustiniani la definì una <<seccante>> sventura: <<Mai questo intero regno aveva desiderato qualcosa come un principe>> Commentò: <<apparendo chiaro a chiunque che lo Stato sarebbe salvo se sua Maestà lasciasse un erede maschio, laddove, senza un principe, tutti temono il peggio>>. Caterina era affranta. Enrico temporaneamente depresso. Il matrimonio per procura di Maria era stato un rischio calcolato: il re aveva scommesso con se stesso che, assai prima che il delfino raggiungesse l'età stabilita per sposarsi, la sua pretesa al trono d'Inghilterra in virtù dei diritti della moglie sarebbe stata invalidata dalla nascita di uno o più figli maschi. Al momento, purtroppo, egli aveva perso la scommessa.

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